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L’insostenibile pesantezza del familismo “all’italiana”

In Meritocrazia on 26 giugno 2009 at 09:00

Un recente articolo dell’economista Daniele Checchi su Corriere Economia sfata alcuni luoghi comuni, relativi al peso della famiglia in Italia. Rinsaldandone però -e al contempo- molti altri. Il quadro che ne esce, come al solito, è tutt’altro che edificante. La ricerca è stata presentata questa settimana a Roma, presso il Ministero del Lavoro. Documenta il peso rilevante delle origini famigliari “nelle scelte formative e lavorative degli italiani”. Tra queste, anche l’accesso alle cosiddette “libere professioni”. Che poi tanto libere non sono, se consideriamo che sono spesso dominate da logiche corporative, per cui chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori. Un capitolo della ricerca, riferisce Checchi su Corriere Economia, sfata come dicevamo alcuni luoghi comuni, relativi soprattutto a ingegneri e architetti. Scoprendo che solo il 10% degli architetti e il 12% degli ingegneri è figlio di un genitore che svolge analoga professione. A dir la verità, Almalaurea tempo fa sosteneva un dato un po’ diverso (e a mio parere più attendibile), quando notava come si iscrivono alla stessa facoltà del padre il 44% degli architetti e il 40% degli ingegneri. Dunque, almeno all’ingresso, siamo un Paese famigliare e corporativo. L’articolo prosegue fornendo prove pesanti a sostegno della tesi espressa dal presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, Antonio Catricalà, laddove afferma che “barriere significative all’accesso alle libere professioni e ai mestieri sono costituite da tirocini non sempre adeguati e da altre non giustificate restrizioni, consistenti per lo più in meri adempimenti burocratici”. Infatti, nota la ricerca in questione, sommando chi svolge la pratica professionale nello studio del padre, di un parente o di un amico di famiglia, arriviamo al seguente risultato: 47% degli architetti e identica percentuale per gli ingegneri. “Si arriva così al dato secondo cui per quasi la metà di questi professionisti la rete famigliare ha avuto un ruolo facilitante nell’inserimento professionale”, annota Checchi, chiedendosi quanto possa essere interessante confrontare questi dati con quelli di altre libere professioni (farmacisti, notai e compagnia bella). Checchi individua gli studi associati come l’antidoto naturale a questo corporativismo all’italiana: “Per un giovane dotato di capacità è più facile entrare in uno studio associato piuttosto che in uno studio famigliare, così come è più difficile per un genitore trasmettere l’avviamento di un’attività ai propri rampolli quando la titolarità dell’avviamento è condivisa tra più persone”. E chiede un sostegno pubblico più chiaro verso questo tipo di studi. Basterà? Temo di no, ma può essere quantomeno un inizio. Comunque, per far meglio comprendere come questo problema “corporativo” riguardi tutto il Paese nel suo complesso e non solo i giovani aspiranti architetti-ingegneri-notai-farmacisti-avvocati-giornalisti, ci basti ricordare gli enormi passi indietro fatti in questa legislatura in materia di concorrenza, con un Parlamento di corporazioni impegnato a smontare pezzo a pezzo le “lenzuolate” di Bersani. Passi indietro che stiamo pagando tutti. Li paghiamo non solo monetariamente, ma anche socialmente, con caste e sorporazioni (notai, avvocati e ordini professionali in genere) che continuano a riprodurre sé stesse in perfetto stile ermafrodita. Il testimone passa dal padre al figlio, dal figlio al nipote, dal nipote al pronipote… mentre il Paese soffoca, imbrigliato dal suo stesso -e famelico- familismo.

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